mercoledì 30 giugno 2010

Javier Marias

Ciò che si ricorda di una esistenza finisce con acquisire, con il trascorrere del tempo - proprio per il fatto di essere ricordato - un carattere narrativo , e finisce per essere visto, a seconda dei casi, come un film, un romanzo o un racconto

lunedì 28 giugno 2010

IRIS o della dimenticanza

Un film bello e commovente come Iris – il cui argomento fondamentale è la perdita della memoria: la malattia dell’Alzheimer – offre agli spettatori un titolo che suggerisce esattamente il contrario di ciò che viene rappresentato nel dramma: “ricordi incancellabili”, mentre invece ciò di cui parla la trama è di come i ricordi si cancellino.
Non si sa molto bene se nel passato già esisteva la malattia o se l’alzheimer – elevandosi l’età collegata alle aspettative di vita – si riferisce ad una patologia più grave e più complessa di quella che prima veniva riconosciuta come “demenza senile”.
In Iris – film diretto da Richard Eyre e interpretato da Judi Dench, Jim Broadbent e Kate Winslet – vengono narrati gli ultimi momenti della scrittrice irlandese Iris Murdoch, morta l’otto febbraio del 1999, all’età di 79 anni. Si tratta dello stesso tema ricostruito dal documentarista Richard Dindo ne La malattia della memoria, un reportage realizzato a Nyon, vicino Ginevra, attraverso interviste a dei malati ed ai loro familiari.
La sceneggiatura del film prende chiaramente spunto dal libro Elegia a Iris, scritto dal critico e romanziere John Bayley, marito di Iris Murdoch per circa quarant’anni. Quando avverte i primi sintomi, egli annota sul suo quaderno: “Questa nebbia insidiosa, appena percepibile fin quando tutto ciò che c’è intorno a te scompare del tutto. Dopo, già non sarà possibile credere che esisteva un mondo al di là di questa nebbia”.
La narrazione si sviluppa dividendosi in due tempi paralleli: quello della giovinezza, interpretata da Kate Winslet, e quella della maturità e dei grandi momenti di lucidità, di cui si fa carico l’interpretazione di Judi Dench.
Nella presentazione dei primi minuti, Iris Murdoch appare come la grande scrittrice e filosofa nei suoi momenti migliori, mentre parla ad una conferenza sul valore dell’educazione, sostenendo che per quanto sia vero che l’educazione non comporti la felicità, essa comunque ci consente, in cambio, di renderci conto di quanto siamo felici. Solo poche frasi, quelle concesse dal linguaggio cinematografico per non disperdersi troppo in idee astratte, sono sufficienti per rendere l’idea della grandezza del personaggio, vincitrice del premio Booker nel 1978.
Bayley cerca di mostrare nel suo bel libro l’improvviso svanire della sua compagna (egli aveva cominciato a scriverlo mano a mano che la malattia avanzava, pubblicandolo verso la fine del 1998, due mesi prima della sua morte) e lo spegnimento della sua memoria condivisa. Già verso il 1994 compaiono alcuni segnali: “non riesco a ricordare chi sia e neanche cosa faccia” dice Iris a proposito del suo personaggio in Jackson’s Dilema. Le accade qualcosa di simile a ciò che era capitato allo storico nordamericano William Manchester: perse la capacità di stabilire connessioni.
“È molto piacevole stare seduto sul letto con Iris addormentata al mio fianco, russando dolcemente. Quando sopraggiunge il sonno ho la sensazione di poter volare in aria a faccia in giù e di poter osservare tutta l’immondizia della casa e delle nostre vite – tanto nel bene come nel male – contemplando come essa affondi lentamente nelle acque oscure fino a scomparire nelle profondità”.
Nel caso di una scrittrice come Iris Murdoch bisogna immaginare che la perdita di speranze diventi ansia o panico più che in altri casi. Perché in uno scrittore la memoria rappresenta una sedimentazione dell’esperienza che dovrà poi trasformarsi in parole narrative: costituisce il meccanismo stesso dell’invenzione letteraria e dell’immaginazione.
“Mi piace questa idea della memoria come macerazione dell’esperienza”, dice Luis Matteo Dìez, “e una delle frasi più plastiche e significative che ho ascoltato nella mia vita proviene da Antonio Lobo Antunes: che l’immaginazione non è altro che la memoria fermentata. La memoria del narratore è il deposito che meglio contiene gli elementi letterari della sua esperienza, questo humus che salva dall’oblio ciò che merita di perpetuarsi nella scrittura mentre si macera”.
John Bayley sentiva, mentre scriveva il suo libro, che una gran parte della sua vita stava entrando in una dimensione senza ritorno. Anch’egli sospettava in se stesso una leggera perdita della memoria, mentre stava restando solo, “incatenato ad una cadavere molto amato”, secondo quanto gli andava dicendo qualcuno.
Ciò che cambia è la percezione del mondo: “uno ha bisogno di sentire che l’individualità della sua consorte non si è diluita nei sintomi comuni di un quadro clinico”.
Come quando certi malati di AIDS vedono compromesso il loro quadro neuronale, anche nelle vittime dell’Alzheimer uno sente che prima muore la persona eppoi il corpo. C’è un momento in cui l’essere amato già non c’è più. Nessuno risponde. Non ci riconosce. Nessun essere riconoscibile abita più quel corpo senza memoria perché ciò che alla fine si è dispersa è la sua identità personale. Il suo Io. Il suo essere per gli altri e per sé stesso.

domenica 27 giugno 2010

Letteratura e Memoria: Proust, Nabokov, Welty...

Tesi senza prove, il saggio letterario propone, suggerisce, insinua; aspira alla persuasione affidandosi alle linee guida consigliate dalla retorica, nel suo versante più creativo: l’argomentazione.
Chiedersi qual è il ruolo della memoria nell’invenzione letteraria – nel processo creativo della letteratura – presupporrebbe comprendere come, in ogni essere umano, e non solo in uno scrittore, il passato influenzi il presente non meno di come il presente influenzi il passato, nel gioco di una doppia prospettiva. Tanto nell’autobiografia come nel racconto, la memoria rappresenta il rovescio della trama, il lato oscuro della luna. Già nel 1932 l’inglese Frederick Bartlett, in un’analisi su L'immaginazione in Shakespeare, in largo anticipo sugli attuali studi neurobiologici, aveva intravisto come il movimento perpetuo della memoria presupponesse una ricostruzione immaginativa del materiale ricordato.
Marcel Proust aveva intuito che nel processo del ricordo viene sempre incorporato un fattore aggiunto alla cosa reale, all’esperienza resuscitata attraverso l’immaginazione, come se la memoria giocasse il ruolo di colei che inventa un’altra “realtà”, apparente o immaginata, che si adatta a qualunque istante del passato. In questa trasfigurazione riveste un ruolo significativo la componente emotiva, in quanto né la coscienza né la memoria rivivono senza le tinte che le fornisce l’emozione.
“C’è una grande differenza tra la vera impressione che abbiamo avuto di una cosa e l’impressione fittizia che ci procuriamo quando tentiamo volontariamente di rappresentarcela”, dice Marcel il narratore alla fine de Il tempo ritrovato. Non è la memoria ricercata intenzionalmente, con gli strumenti dell’intelligenza, ma è la memoria involontaria l’unica che ci lascia godere della stessa sensazione in una circostanza totalmente diversa: “La liberano da ogni contingenza, ci trasmette l’essenza extratemporale, quella che costituisce precisamente il contenuto dello stile elevato, di quella verità generale e necessaria che solo l’innalzamento dello stile è capace di riflettere”.
La memoria volontaria (una memoria dell’intelligenza e degli occhi) non ci restituisce il passato ma volti sprovvisti di verità.
Ma se un odore, un sapore recuperati in una circostanza completamente diversa, risveglia in noi, indipendentemente dalla nostra volontà, il passato, allora notiamo quanto tale passato era diverso da ciò che noi credevamo di ricordare, passato che la nostra memoria volontaria dipingeva con colori privi di verità.
Così per Proust è solo dai ricordi involontari che un artista dovrebbe estrarre la materia prima della sua opera.
In primo luogo, proprio perché sono involontari – perché si formano da sé, attratti dalla somiglianza di un minuto identico – questi ricordi “sono gli unici che possiedono un’impronta di autenticità. Inoltre essi ci restituiscono le cose dosando adeguatamente le quantità necessarie di memoria e di oblio.”
Ciò che colpisce Vladimir Nabokov è l’uso che la memoria fa di certe armonie quando essa, la memoria, dispiega le erratiche tonalità del passato.
Così come Proust, Nabokov e altri, si potrebbe pensare alla musica come a una metafora della capacità che la memoria ha di raggruppare, a partire dal flusso del tempo, qualunque possibile quantità di immagini e fatti che, per quanto triviali, nascondono una tonalità emotiva tale da renderle in qualche modo connesse tra loro.
La memoria, dice Patricia Hampl, deve essere trascritta in quanto ognuno di noi deve mantenere una sua propria versione creata del passato: “Creata: vale a dire reale, tangibile, fatta della materia di una vita vissuta in un luogo concreto e nella storia”.
A Toni Morrison la memoria è servita nella creazione della sua opera romanzesca in quanto essa “accende un processo di invenzione” e perché lei, Toni Morrison, non poteva attendere che la sociologia o la letteratura di altri autori la conducessero verso la conoscenza della verità delle sue stesse fonti culturali.
In Eudora Welty l’esperienza della memoria ha altre matrici:
“Ogni qual volta scopriamo qualcosa, ricordiamo. Ricordando, scopriamo. E questo lo sperimentiamo con maggior intensità quando i nostri viaggi interiori convergono…
In questi punti di convergenza la nostra esperienza esistenziale rappresenta uno dei territori più drammatici in cui vive la fiction…
E la maggior convergenza di tutte è quella che rende possibile l’esistenza della memoria umana e individuale…
La memoria che io possiedo è il mio tesoro più prezioso, tanto nella mia vita come nella mia opera di scrittrice…
Qui, anche il tempo è oggetto di una convergenza…
La memoria è qualcosa di vivo, qualcosa che si trova in transito. E mentre sura il suo istante, tutto ciò che si ricorda si unisce e vive: ciò che è vecchio e ciò che è nuovo, il passato e il presente, i vivi e i morti.”

sabato 26 giugno 2010

Don Chisciotte

Il tema principale del Don Chisciotte è la letteratura stessa: la possibilità della mente umana di abitare due mondi allo stesso tempo e discernere tra i due. Miguel de Cervantes viene a dirci che viviamo in un continuo contatto con la finzione. Dobbiamo vivere – per sopravvivere – nella finzione. E un’esperienza della finzione non si trova solo nella letteratura ma anche e soprattutto nei sogni, nel potere, nella religione.
Se al nostro risveglio credessimo o prendessimo seriamente il sogno come qualcosa di realmente accaduto, diventeremmo pazzi. Un altro ambito in cui conviviamo con la finzione è il campo magnetico e simbolico che presuppone l’esperienza del potere. E per quanto concerne la religione non c’è alcun dubbio che si tratti in gran parte di letteratura, in quanto a suo sostegno esiste una storia o una catena di parabole narrative in cui appaiono innumerevoli personaggi o idee. Come ha detto Borges: la religione forma parte indissolubile della letteratura fantastica.
Non sembri strano, dunque, come mostra il romanzo di Cervantes, che tanto la memoria come la coscienza e la finzione ci consentono di stare nel mondo dei vivi per comprendere che il volto riflesso nello specchio non è quello di un altro personaggio ma semplicemente questo, un riflesso.
Sono già trascorsi più di quattrocento anni da quando è stato pubblicato il primo esemplare della prima parte del Don Chisciotte. Cervantes la scrisse durante l’anno in cui ne compiva 57, nel 1605, e non poteva immaginare allora che con quell’opera stava inventando il romanzo moderno. Il dato non è ozioso.
A 68 anni, dieci anni dopo il primo volume, nel 1615, Cervantes ha scritto e pubblicato la seconda e ultima parte del grande classico, quando i conquistatori spagnoli già si trovavano da 95 anni nella Nuova Spagna (Cervantes nasce nel 1547 ed è contemporaneo di Hernan Cortés). Ed è tale la libertà della sua inventiva che si è consentito ogni genere di digressione nell’ambito del “romanzo all’interno del romanzo.” Per questo nel Don Chisciotte ci sono già tutte le “innovazioni” sperimentate dal romanzo moderno nelle opere di Marcel Proust, James Joyce, Virginia Woolf, William Faulkner ed altri.
Alonso Quijano – il personaggio drogato di romanzi di cavalleria che si propone di rappresentare un altro personaggio, Amadis de Gaula, fingendosi pazzo – sfiorava appena i 50 anni. Ciononostante è difficile credere nella “follia” di un cavaliere dal discorso così coerente e saggio. Almeno dal punto di vista della neurofisiologia moderna.
Un esempio del fatto che il Cervantes autore e narratore del Chisciotte si muova su vari piani di realtà, emerge con chiarezza nei primi capitoli della seconda parte: il personaggio Alonso Quijano vestito da Don Chisciotte parla di uno scrittore, Miguel de Cervantes, che ha scritto un’opera intitolata El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha. Ne discute con Sancio, il quale ha anch’egli saputo del Quijote di Avellaneda, l’anonimo autore al quale era venuto in mente di scrivere una seconda parte prendendosi gioco di Cervantes, ed entrambi lo criticano senza pietà.
Con questo gioco di specchi, tra realtà e finzione, Cervantes è tipicamente un pirandelliano avant la lettre, ovvero stabilisce un incontro tra l’autore e i suoi personaggi.
La doppia personalità o la personalità divisa di Alonso Quijano/don Chisciotte lo porta a discutere con Sancio dell’esistenza stessa del romanzo, il don Chisciotte, e si lamentano con l’autore.
Non solo assistiamo alla trasformazione della creatura in personaggio, ma al dialogo stesso tra personaggi fittizi e il loro creatore, tema cruciale nell’opera pirandelliana. E per continuare a rimescolare le carte, per riprendere a giocare, quando don Chisciotte e Sancio giungono a Barcellona, finiscono per visitare una tipografia in cui si sta stampando il romanzo in cui entrambi vivono come personaggi.
Era veramente pazzo don Chisciotte? Forse lo era secondo la concezione della pazzia vigente in Spagna intorno al 1605, ma non certo secondo le definizioni cliniche elaborate dalla psichiatria del XX secolo. In Alonso Quijano (la creatura) e in don Chisciotte (il personaggio) non c’è uno sdoppiamento radicale. Don Alonso non rompe con la dimensione della realtà come fanno gli psicotici. Egli si mantiene sempre in contatto con la realtà e Sancio rappresenta il suo legame con essa. Si potrebbe forse dire che don Alonso Quijano stia giocando ad essere un altro, il cavaliere errante, e che egli finga la pazzia come l’Enrico IV di Luigi Pirandello. Che fa finta di essere pazzo per consegnarsi a quella fantasia alla quale aspirano tutti coloro che desiderano vivere altre vite. Alonso Quijano non ha paura dell’immaginazione, né della fantasia; al contrario, egli si rifugia in essa perché è cosciente del fatto che viviamo nel mondo della soggettività. Ognuno vede in questo mondo (soprattutto nella politica e nella religione) il film che meglio si adatta alle sue credenze.

venerdì 25 giugno 2010

Paul Auster

Di molte cose, ma soprattutto della creazione e della procreazione, tratta L’invenzione della solitudine, il romanzo-saggio-diario-memoriale di Paul Auster.
L'autore americano vede se stesso in questa solitudine inventata, immaginata, costruita, elaborata ma non per questo meno reale né meno creativa, come autore e come personaggio, nel suo ruolo di padre e nella sua condizione di figlio, mentre ordisce una dilatata meditazione sul linguaggio, la memoria, la scrittura, il doppio, ma soprattutto sulla paternità e la filiazione.
Se è vero che durante l’epoca d’oro di Jean-Paul Sartre si è parlato molto di un “romanzo esistenzialista”, il critico francese Michel Contant ritiene che L’invenzione della solitudine (pubblicata nel 1982) potrebbe molto bene essere considerato un “romanzo esistenzialista” in quanto riprende la riflessione sartreana che emerge dalla propria esperienza. Il fatto biografico come parte di un romanzo involontario, non scritto, viene assunto come materiale di finzione senza alcuna maschera, non come una filosofia ma come una sorta di compromesso con la verità che l’autore stabilisce con se stesso e in cui viene arrischiato qualcosa di più della sua reputazione letteraria. Si spoglia con tutte le conseguenze del caso; si avvale di una prima persona in cui l’Io è a volte il personaggio e a volte l’autore, fondendo in un solo tessuto la vita e la letteratura.
Oltre a fissare attraverso la scrittura una posizione di fronte al mondo, come voleva Sartre, e di mettere in relazione la comparsa e i flussi intermittenti della memoria con il processo creativo e l’operazione della scrittura, l’autore-narratore de L’invenzione della solitudine comincia non accettando il fatto che suo padre sia vissuto invano, decidendo che, per preservare quella vita, per evitare che si disperda in modo irrimediabile, sia necessario scriverla: immergersi nell’oscurità di un passato che solo le parole e la loro imprevedibile dinamica potranno scoprire. La morte del padre lascia via libera, dunque, al lavoro della memoria e della scrittura.
L’autore tenta di ricostruire quella vita perduta avanzando il sospetto che forse, come suggeriva Kierkegaard, “chi si decide a lavorare fa per questo stesso motivo rinascere suo padre” e che il libro, nato dalla solitudine, in un futuro dovrà servire a dire qualcosa di se al suo stesso figlio. “Il legame esistenziale più forte è quello che si stabilisce tra un figlio e suo padre”, scrive Michel Contat, “e solo mettendo in luce tale legame consente a sua volta al figlio di diventare padre. L’invenzione della solitudine è il libro più struggente e lucido che io conosca su questo rapporto di cui Sartre sentì tanto la mancanza, il quale non giunse mai a sapere quanto gli mancasse”.
Il fatto è che il riannodarsi di un safari sentimentale nella complessità dell’infanzia – la ricerca dei segni e delle chiavi interpretative, l’indignazione per il bambino che siamo stati e che è andato svanendo senza morire del tutto con il passare del tempo – tende verso un’identificazione che solo raramente un adulto vuole concedersi, credendosi eterno, ma che alla fin fine e ineluttabilmente si ripropone nell’agonia: negli ultimi istanti del nostro personaggio sulla terra, prima di fuggire, “perché la morte non è morire”, come scriveva José Revueltas, “ma ciò che precede la morte, ciò che immediatamente la precede, quando ancora non entra nel corpo ed è immobile, bianca, nera, viola, seduta sulla sedia più vicina”.
Ne L’invenzione della solitudine Paul Auster certamente non si gongola nella siesta dolce e irrecuperabile dell’infanzia perduta, ma associa la morte di suo padre con il bambino che fu (Paul Auster) ed esplora le implicazioni della paternità (tanto quella che si riferisce al suo progenitore quanto quella che continuamente, lungo tutto il racconto, proietta verso suo figlio) e della filiazione. Come personaggio e come autore egli tenta di comprendere la vita e la morte di suo padre, un uomo freddo che per sopravvivere si mantiene a galla sulla superficie di se stesso, incapace di esprimere un’emozione o il benché minimo gesto di affetto. Situato in mezzo, tra suo figlio di due anni e suo padre morto, Auster rastrella le chiavi del suo essere nella catena di identificazioni maschili che si va tendendo dal nonno al nipote e ai pronipoti.
Figlio di un immigrato ebreo-austriaco stabilitosi a Kenosha, nel Wisconsin, Samuel Auster, il padre di Paul, incarna la figura centrale della prima parte del romanzo, “Ritratto di un uomo invisibile” (la seconda e ultima parte si intitola “Il libro della memoria”). Glaciale, paralizzato dal punto di vista amoroso, assente e quasi sconnesso dalla vita, egli diviene, nell’esperienza di suo figlio, “un uomo invisibile per se stesso e per gli altri”.
Se il passato si nasconde, al di là dell’intelletto, in certi oggetti materiali, secondo il ragionamento di Marcel Proust, la circostanza scatenante della memoria e della narrativa di Paul Auster proviene dal vuoto e dalle cose che ritrova nella casa del padre morto, quando apre la sua camera da letto e scruta tra la sua roba, quando osserva le pareti non dipinte, quando ripara i rubinetti malandati e gli utensili per le pulizie, avvertendo che da quelle parti ci sono ancora dei vestiti di sua madre, non perché suo padre, divorziato già da oltre quindici anni, si afferrasse al passato e volesse preservare la casa come un museo, ma perché non si rendeva conto di niente e niente gli importava: “Lo governava la negligenza, non la memoria”. L’uomo non sapeva manifestarsi. Non era capace di una carezza. Faceva la vita di un solitario, non come Emerson, che si era isolato per conoscere se stesso, non come Giona, che pregava per salvarsi nel ventre della balena che gli aveva impedito di affogare, ma nel senso di qualcuno che si ripiega, che batte in ritirata per non doversi osservare, né lasciarsi osservare dagli altri. Un uomo senza appetiti. La morte nella vita. La morte del desiderio.
Tra gli oggetti materiali che si rifanno al morto e che lo caratterizzano come personaggio, facendolo in qualche strano modo sopravvivere, le fotografie nascondono per il figlio l’illusione di potergli rivelare una verità lungamente ignorata. La ricerca del padre si trasforma allora in inquisizione, una domanda avanzata ma inascoltata fin dall’infanzia.
La storia della letteratura abbonda di esempi sul giudizio che in modo ineludibile i figli si fanno dei loro genitori o sulla rievocazione della madre o del padre: da Marina Tsievetàieva in Il diavolo, Peter Handke in La disgrtazia peggiore, Albert Cohen in Il libro di mia madre, Gianfranco Pecchinenda in L'ombra più lunga, Adelaida Garcia Morales in Sud, fino a Carlo Collodi in Pinocchio, per non parlare di quel richiamo classico di Kafka a suo padre (la lettera che suo padre non lesse mai). E il tema diventa assolutamente perentorio per il vecchio Ingmar Bergman, poco prima di morire, con Las mejores intenciones.
Questa modalità di assumere vita e letteratura come una stessa realtà (in ultima istanza l’autobiografia diventa, per tutti gli altri, fiction) si arricchisce in Paul Auster con l’inquietudine dell’enigma quando tra le carte e le fotografie del padre si imbatte in un crimine.
Una foto di gruppo di famiglia ha congelato, agli inizi del XX secolo, l’immagine della nonna con i suoi cinque figli: una femmina e quattro maschi, uno dei quali, il neonato di meno di un anno seduto tra le braccia della madre, è il padre di Paul. Il nonno non appare… ma c’era: doveva essere stato ritagliato da qualcuno in modo grossolano e irato perché la fotografia è rotta, strappata e reincollata in modo tal da far intravedere sullo sfondo un albero volante e privo del tronco e, al di sotto delle ascelle di uno dei bimbi, si percepiscono le punta delle dita di un essere inesistente o escluso: il nonno. Questa negazione rancorosa non permane solo nella mera metafisica dell’entelechia fotografica in quanto, come poi verrà a sapere Paul Auster attraverso dei ritagli di giornale, sua nonna aveva sparato e assassinato suo nonno nel 1919 davanti a uno dei suoi figli che manteneva una candela mentre il padre stava cambiando una lampadina fulminata. Nell’oscurità e nella penombra. Tutto ciò dovette averlo percepito a modo suo, quando aveva due anni, il padre di Paul. La nonna fu incarcerata dopo un processo nel quale comparirono anche i suoi figli più grandi. Alla fine però la nonna venne fatta uscire con l’obbligo di emigrare verso la costa orientale.
Se l’avvenimento getta una certa luce sul carattere elusivo del padre, la sua ricostruzione, la sua ricreazione, la sua trasformazione in scrittura non cessa di essere al contempo una riflessione sul linguaggio, sulla memoria e sulla necessità vitale di raccontare per essere. Come già aveva detto Bashevis Singer: “Quando un giorno passa, smette di esistere. Cosa resta? Nient’altro che una storia. Se le storie non venissero raccontate o i libri non venissero scritti, l’uomo vivrebbe come gli animali: senza passato né futuro, in un presente cieco”.
Paul Auster si rifà al mito di Giona e al suo apologo Pinocchio per illustrare la caduta nelle tenebre e la ricerca ossessiva del padre. Al cadere nel ventre della balena Pinocchio ha la sensazione di essersi immerso in un calamaio: tutto è buio intorno a lui, il buio della solitudine. Tuttavia Pinocchio non sa che anche Geppetto si trova lì. Ma è proprio in questa oscurità che il burattino scopre in se stesso il coraggio per salvare suo padre e per riuscire a trasformarsi – proprio grazie a ciò – in un bambino vero, in carne e ossa. Proprio come la penna di Collodi, anch’essa di legno, Pinocchio entra nel buio dell’inchiostro nero e Collodi lo utilizza come strumento della sua creazione al fine si scrivere la storia della sua propria infanzia. “Perché solo nel buio della solitudine comincia il lavoro della memoria”.
Nel corso della sua vita ognuno intraprende – come Juan Preciado che si dirige verso Comala per incontrare Pedro Paramo – la ricerca del padre, ma più o meno verso la metà del cammino della vita uno ricrea, ricostruisce il padre che gli è mancato. Talvolta la scrittura non è se non uno sforzo per risarcire la figura del padre perduto.
La memoria va e viene, intermittente, come una voce. È una voce che ti parla quando chiudi gli occhi e non necessariamente è la sua voce. È una delle “voci familiari” di Harold Pinter. Ma questa voce parla come se raccontasse una storia a un bambino. E il bambino ha tanto bisogno di storie come del cibo, e la sua mancanza si manifesta come fame, in quanto se non gli si consente di avere accesso all’immaginario egli non riuscirà mai ad entrare in sintonia con il mondo reale.
L’atto di scrivere è un atto della memoria. I pensieri, come sentiva Pascal, vanno e vengono. Oppure non ritornano mai. Sfuggono. Quando, nell’insondabile solitudine della sua stanza, cominciò a scrivere la sua solitudine, l’autore-personaggio si sentì maggiormente padrone del suo essere (per essere se stessi bisogna stare soli, dice un abitante del mondo pirandelliano). La memoria, allora, ha operato non semplicemente come la resurrezione del suo stesso passato, ma come un’immersione nel passato degli altri, il che equivale a dire: nella storia. Tutto gli si è ripresentato allo stesso tempo, come in un eterno presente, e il piacere di raccontarlo è dovuto essere necessariamente lento. La penna non potrebbe mai avanzare in modo sufficientemente rapido da poter lasciare registrata ogni parola scoperta nello spazio e nel ritmo della memoria. Alcune cose si perderebbero per sempre, altre forse potrebbero essere ricordate di nuovo, e altre ancora si perderebbero e si ritroverebbero e si riperderebbero un’altra volta. Come i pensieri di Pascal.
“Si, è possibile che non cresciamo mai, che anche quando diventiamo più vecchi continuiamo ad essere i bambini di sempre. Ci ricordiamo come eravamo allora e ci sentiamo gli stessi. Ci convertiamo allora in ciò che siamo adesso ma continuiamo ad essere ciò che eravamo, nonostante gli anni. Cambiamo per noi stessi. Il tempo ci fa crescere, ma non cambiamo”, sente, pensa, dice, crede, fa congetture, Paul Auster, e inventa a partire dalla sua solitudine.
Perché non si tratta di una solitudine inventata ma dell’invenzione che si genera nella matrice della solitudine (da Federico Campbell)

giovedì 24 giugno 2010